Storie di coraggio
Le voci di chi ha operato in prima linea, i racconti dell’impegno e della paura di chi ha lavorato negli ospedali.
A tu per tu con la paura 7 giorni su 7, giorno e notte, bardati come degli astronauti per scongiurare ogni possibilità di contagio, impegnati nel loro lavoro ma anche a consolare e sorridere da dietro le mascherine di protezione. Le operatrici e gli operatori addetti ai servizi di sanificazione e pulizia nei reparti Covid degli ospedali in cui è presente Rekeep, hanno dato prova di coraggio e grande dedizione. Le loro parole valgono più di ogni riflessione sulla tempesta che ha colpito il Paese, e per loro i ringraziamenti non saranno mai abbastanza.
Abbiamo selezionato alcune brevi testimonianze. Alcune in forma scritta, altre video, in rappresentanza di tutti coloro che hanno prestato la propria opera senza mai tirarsi indietro, e che hanno accompagnato il proprio lavoro con una parola di conforto e un sorriso per consolare chi era nella sofferenza.
Ci sono dei numeri che ricorrono nei ricordi di chi ha vissuto in trincea la pandemia. Caterina D’Addario, RGO presso l’Ospedale S. Anna di Como li riassume cosi: “24 ore su 24, 7 giorni su 7”. Nulla sarà come prima. “Siamo passati attraverso una tragedia, non si può usare termine diverso. La nostra normalità sconvolta dal profondo, sensazione di paura unita alla tenacia di chi non è indietreggiato, e nonostante questo abbiamo dovuto fare miracoli combattendo anche con la carenza di personale rispetto alle richieste del cliente”.
Per la prima volta al S.Anna di Como è stato chiesto agli operatori di Rekeep di garantire un presidio notturno al Pronto Soccorso. “È stato così che alcune operatrici hanno iniziato, il 28 febbraio, a coprire tre turni di 8 ore, per garantire la sanificazione dei locali del Pronto Soccorso, presidio attivo tuttora”. Tensione e stanchezza non sono mancate. “Non tutti reagiscono allo stesso modo allo stress psico-fisico che una situazione simile procura, e quindi è stato necessario anche soccorrere chi poteva, anche solo temporaneamente, cedere alla tensione, farsi sopraffare dal timore. Per non parlare dei colleghi che hanno dovuto combattere direttamente con la malattia. Per fortuna tutto è andato bene”.
E poi c’erano i malati a cui rivolgere una parola di conforto. “Alcuni ci hanno anche chiesto in prestito il cellulare per chiamare la famiglia, prassi ovviamente non autorizzata; fortunatamente l’ospedale stesso ha provveduto ad organizzare delle videochiamate per confortare pazienti e famiglie, separati da un isolamento doloroso”. E poi i risvolti familiari. “Di fronte al mio impegno e a quello di mio marito che lavora sempre in un presidio sanitario il comportamento dei miei tre figli è stato esemplare. Considerati i possibili rischi hanno evitato rigorosamente di frequentare amici e parenti fino solo a qualche giorno fa. Oggi fortunatamente la situazione è molto migliorata ma, purtroppo, non possiamo abbassare del tutto la guardia”.
Rita Scigliano, 56 anni, tre figli e sei nipoti. Da 15 anni lavora per Rekeep nel reparto di Malattie Infettive del Policlinico di Modena. Per lei e le sue colleghe l’emergenza Covid «è stata come un diluvio. Ci siamo ritrovati a pulire le camere piene di sconforto perché, a volte, è successo che il paziente che avevi salutato la sera prima, il giorno dopo non ci fosse più». Rita ha avuto anche il compito di guidare alcune colleghe provenienti dai servizi nelle scuole, chiuse da marzo che si sono rese disponibili a supportare i servizi negli ospedali. «La prima cosa che ho detto loro è: “Non ci dobbiamo infettare, perché noi entriamo in tutte le stanze. E serve cautela per noi e le nostre famiglie”. “In tanti anni ho visto pazienti con scabbia, tubercolosi... - continua Rita - Se hai timore di entrare in quelle camere, non lavori bene. Quindi, calma e sangue freddo. Ti immergi nella sofferenza, ma pure in storie felici: come quella di un signore di 82 anni uscito dalla terapia intensiva ».
Sabrina Annovi, di Modena, lavora nel Policlinico della città emiliana dal 1988, dove oggi coordina tutti i 204 colleghi. «Siamo un piccolo esercito. Il Coronavirus è una dura prova, la più grossa. In breve, è nato il gruppo per imparare vestizione e svestizione. Ora siamo dei treni».
Per Carmela Regina, 52 anni, di Limidi, sposata, due figli, anche lei impegnata nel Policlinico di Modena, un passaggio delicato è stato quello di rassicurare la famiglia. «Ho spiegato loro che avevamo in dotazione un corredo di sicurezza fatto di doppi camici, calzari, guanti e mascherina. Ho lottato con la paura, ma non mi sono mai rifiutata di entrare in una stanza, volevo essere utile in un frangente così critico e difficile».
«Noi portiamo il sorriso e lo strappiamo ai pazienti – racconta Caterina Cantiello, 52 anni, che abita a Carpi e ha due figli. «A qualcuno mi sono proprio affezionata – sottolinea Caterina - come a Davide, un giovane guarito: ogni giorno mi raccontava un po’ della sua vita con moglie e bimbi».
Nell’Ospedale di Baggiovara Sabina Manfredini, che abita a Magreta, svolge il ruolo di capocantiere. La sua è una testimonianza particolarmente toccante. «Affrontare il Covid-19 non è da tutti. Ho cercato di infondere forza alle colleghe quando il timore era diffuso, ma è molto dura: soprattutto quando capita, come è successo a me, che un malato di Covid ti chieda aiuto mentre sta morendo. Dopo ho avuto un crollo, poi sono risalita. Vorrei dire grazie soprattutto alle cinque ragazze addestrate all’inizio, che lavorano in Terapia intensiva e nei reparti Covid: hanno aiutato mettendo a rischio ogni giorno la propria vita».
Patrizio Di Noia governa un contingente di circa 450 operatori Rekeep tra gli ospedali romani dello Spallanzani, unità d’eccellenza nazionale nel campo delle malattie infettive, il Campus biomedico di Trigoria e il complesso S.Giovanni-Addolorata.
“Ho intuito la gravità della situazione quando, poco dopo il primo ricovero dei due pazienti cinesi, il flusso di pazienti allo Spallanzani è aumentato vorticosamente, e tutti arrivavano accompagnati dal personale sanitario in tenuta super-protettiva, quella che si usa in caso di virus sconosciuti”.
È iniziato così il girone dantesco del Covid-19 e, come sottolinea Patrizio “il nostro compito, che fino a quel momento passava spesso inosservato, è divenuto centrale, e le responsabilità si sono improvvisamente moltiplicate”. Missioni come sanificare e attivare in 24 ore, allo Spallanzani, un padiglione di 6.000 mq mai utilizzato prima o il Pronto Soccorso Covid al Campus Biomedico, si trasformano non solo in sfide da vincere, ma anche in prove per testare la resistenza e la professionalità degli operatori: “Ce l’abbiamo fatta, è stata una gratificazione per tutti ma soprattutto un servizio indispensabile per i pazienti e i sanitari.
Nel frattempo dovevamo rivedere l’intera organizzazione del nostro lavoro, ed è stato fondamentale poter contare sulla professionalità e la preparazione di tutti i colleghi, capaci di selezionare i detergenti e i disinfettanti più appropriati per ogni singola esigenza di sanificazione”. Fuori dall’ospedale per Patrizio, e per i suoi colleghi, proseguiva una vita scandita dal lockdown.
“Chiusi in casa come gli altri, ma con la consapevolezza che un minimo errore compiuto sul lavoro sarebbe potuto costare l’incolumità dei tuoi familiari”. E poi il plauso dei sanitari. “Forse il riscontro più apprezzato, il vero valore aggiunto, perché mai come in questo momento abbiamo compreso insieme quanto cruciale sia il nostro intervento, e quanto è contato aver costruito un rapporto di collaborazione stretta con tutto il personale. È stato incredibile constatare il grado di unione e di comune intento, quello di uscire al più presto da questa tempesta”.
“La domanda fatidica di ogni mattina alle 5.30 circa era sempre la stessa: siamo abbastanza per portare a termine l’attività, ce la facciamo?”. Il ricordo rompe la voce di Elisabetta Neri, 44 anni, RGO dell’Ospedale Careggi di Firenze e il pensiero va ai momenti più duri dell’emergenza. “La situazione non poneva alternative, ho subito capito che era richiesta una dedizione assoluta, anima e corpo. Ho affidato i miei figli ai miei genitori e non li ho visti più per 40 giorni”. Ma come dice Elisabetta, oggi è bello constatare che quello tsunami “non è riuscito a spazzarci via”.
“Conoscevamo già le procedure di vestizione e svestizione con i dispositivi di protezione dopo che, alcuni anni fa, dovemmo lavorare a contatto con alcuni casi di Ebola. Stavolta però la mole di lavoro era incredibilmente più elevata, e il primo compito è stato quello di far capire ai colleghi che nonostante la paura e le precauzioni, dovevamo farcela”.
L’organizzazione ospedaliera completamente sconvolta, sei reparti Covid allestiti a tempo di record, due terapie intensive, manutentori pronti ad intervenire giorno e notte, e poi lo scambio umano con i pazienti, quelli vigili, a cui rivolgere anche soltanto “il buongiorno e un cenno di incoraggiamento”. E poi i decessi che si ripetevano con un ritmo vertiginoso e la necessità di sanificare ad ogni cambio di paziente.
“È stata molto dura, ma è stato anche il frangente in cui ho potuto constatare con mano la caratura del nostro gruppo, e ne sono profondamente orgogliosa”. Il momento più bello la riunione con i figli Giorgio, di 8 anni, e Lorenzo di 10. “Per loro sono una mamma-eroe, ma è stato inevitabile, abbiamo fatto il nostro dovere, ed è stato veramente un lavoro di tutto il gruppo. Da sola non ce l’avrei mai fatta, ma insieme abbiamo superato l’insuperabile”.
Giuseppina Iannaccone, coordinatrice del personale addetto alle pulizie e ai trasporti dell’Ausl di Imola, racconta dell’estrema attenzione con cui hanno condotto il proprio lavoro per non esporre al pericolo se stessi, i propri cari, i colleghi di lavoro. «Su di noi è ricaduta una doppia responsabilità: se non avessimo applicato le procedure in modo corretto sul lavoro, avremmo rischiato di portare il virus a casa».
Con il suo gruppo ha garantito, insieme ai servizi essenziali di pulizia e disinfezione, di trasporto dei degenti, di lavaggio e sterilizzazione della biancheria e delle divise del personale, anche un grande supporto umano per pazienti. Hanno sorriso da dietro alla mascherina per rassicurare chi stava lottando, spesso, tra la vita e la morte.
«Siamo state la loro seconda famiglia. In quella mezz’ora in cui siamo nella stanza con loro, ci chiedevano cosa c’era fuori, quanta gente uscisse di casa, se c’era il sole», spiega Giuseppina. «Lavoro da 22 anni e questa situazione non l’avevo mai vista prima. Abbiamo lavorato 7 giorni su 7 e i turni li abbiamo organizzati praticamente giorno per giorno. Si sono aggiunti anche turni notturni, perché la sanificazione è aumentata. Nessuno si è mai fatto indietro. Sono cambiate le procedure, il modo di vestire, il comportamento di ognuno di noi. Per fortuna, l’azienda Rekeep e l’Ausl ci sono state vicine fin da subito e c’è stata una formazione in tutto l’ospedale».
Incoraggiarsi a vicenda è stato importante, come spiega Lucia Iuso al lavoro da 4 anni all’ospedale di Imola. «Quando ci incrociavamo nei corridoi, ci dicevamo sempre la stessa cosa: ‘Dai che ce la facciamo!’ », e confessa: «Mai mi sarei aspettata qualcosa di simile: quando il virus ha colpito la Cina ci dicevamo che qui non sarebbe mai arrivato. Mi ricordo quando è arrivato il primo paziente: in quel momento ci sembrava surreale, perché non sapevamo a che cosa stessimo andando incontro. Si è lavorato in sinergia con medici e infermieri, e ci davamo coraggio l’un l’altro». Ai timori si aggiungeva la complessità della vestizione, precauzione necessaria per fronteggiare luoghi che potevano essere contaminati. «Abbiamo sempre seguito minuziosamente la stessa procedura – spiega Lucia - mettiamo dei camici idrorepellenti, poi calzari e copri calzari in plastica, e poi altri copri calzari. Sopra il camice, aggiungiamo un altro camice, indossiamo due cuffie, e aggiungiamo all’occorrente le mascherine ffp3 e gli occhiali o le visiere. Lavorare così è pesantissimo, siamo bardati come astronauti: si suda tanto, ma è importante per la nostra sicurezza».
E in mezzo a tante difficoltà anche molte parentesi emozionanti. «Mi è capitato di vedere due coniugi che erano stati ricoverati insieme e sono usciti insieme dalla rianimazione. Una mattina, mentre stavo lavorando e dopo diversi giorni che non potevano parlare, uno dei due mi disse: ‘Buongiorno signora’: mi sono girata di scatto e sono rimasta ferma un attimo. È stata una grande emozione». «La soddisfazione di aver visto persone che ce l’hanno fatta è stata immensa – conclude Lucia – e poi, la collaborazione tra la nostra azienda, Rekeep, l’Ausl e tutti i colleghi, dottori, infermieri. Anche le persone al di fuori ci sono state vicine ed è una sensazione di affetto bellissima. Siamo tutti una grande famiglia».
“Abbiamo preparato il terreno a chi doveva affrontare l’emergenza in prima linea: ci siamo occupati di allestire gli spazi e renderli pronti e operativi il prima possibile. Circuiti elettrici, pannelli, impianti, spine, riscaldamento e condizionamento... abbiamo fatto davvero un po’ di tutto. Dove c’era un problema abbiamo sempre cercato di risolverlo”.
Luigi Facchini, responsabile Energia e Servizi Manutentivi dell’Area Emilia-Romagna di Rekeep, ricorda così i giorni dell’emergenza quando si è trovato a coordinare a Bologna e provincia l’attività di tecnici, elettricisti e manutentori in azione in tutti gli ospedali. “Sabato e domenica non esistevano più: appena arrivava una chiamata, ci mettevamo subito in moto. I ragazzi hanno allestito due tende di triage esterne davanti all’ospedale Maggiore, dove abbiamo anche rimesso a nuovo alcune sale operatorie. Al Rizzoli ci siamo occupati dei punti d’accoglienza, mentre al Sant’Orsola un team di colleghi rendeva operativo in soli 6 giorni il nuovo padiglione 25 dedicato a terapia intensiva e pazienti Covid. Insieme ce l’abbiamo fatta”.
Con grande disponibilità ed un grandissimo impegno: “Le tempistiche erano praticamente immediate. I ragazzi lavoravano da mattina a sera, continuando anche a gestire i servizi di tutti i giorni, che dovevano comunque andare avanti”. Un centinaio in tutto le persone complessivamente impegnate su tutta la provincia di Bologna “tutti reperibili e tutti disponibili” sottolinea Luigi, nonostante il comprensibile timore del virus: “Fortunatamente noi abbiamo lavorato e lavoriamo nella fase precedente a quella dei ricoveri dei pazienti ammalati, non siamo direttamente a contatto con loro e comunque abbiamo sempre utilizzato tutti i dispositivi di sicurezza necessari, come tute, occhiali e guanti. Però l’impatto emotivo c’è stato. È stato un momento molto pesante, per fortuna, almeno la fase più difficile, sembra passata”.
Mi muovevo nel bel mezzo del dramma, tra i reparti di terapia infettiva e di pneumologia, senza sosta”. Katia Soligo, addetta alle pulizie di Rekeep, ha fatto la spola all’interno dei reparti di terapia intensiva, degenza infettivi e pneumologia dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso mentre, giorno dopo giorno e ricoverato dopo ricoverato, andava delineandosi la gravità dell’emergenza.
“All’inizio non si percepiva fino in fondo quanto fosse devastante l’azione di questo virus, ma con il passare dei giorni abbiamo preso consapevolezza di quante cautele andavano seguite per evitare il rischio del contagio”. Ovviamente, anche per Katia e le sue colleghe si è prospettata subito la necessità di “bardarsi di sana pianta”, come racconta Katia, “indossando tutti i giorni la tuta, doppi guanti, mascherina e occhiali protettivi, quasi fossimo agenti dei Ris, anche se in questo caso si trattava di un killer noto ma invisibile”. “Per permetterci di proseguire speditamente nell’opera di igienizzazione e sanificazione il personale di ogni turno è stato praticamente raddoppiato. “In questo modo abbiamo potuto mantenere inalterata la cadenza consueta dei nostri interventi, con un servizio la mattina e uno il pomeriggio”.
Katia ricorda con piacere anche la gratitudine del personale sanitario. “Non finivano di ringraziarci per il lavoro che portavamo avanti, mantenendo sotto controllo la paura iniziale, nonostante le rassicurazioni che ci venivano proprio dai medici”. Un’esperienza che, osservata a distanza di tempo, lascia spazio a molta amarezza “per il senso di impotenza che si prova di fronte ad un virus così insidioso, capace di annientare una persona. Basterebbe questo per convincere tanti che oggi rimangono increduli e anche un po’ spavaldi di fronte ai danni prodotti da questa malattia per farli ricredere”.